– di Antonio Trentin –
Ha molto, se non tutto, la movimentata geografia del Veronese, nella quale si delinea un catalogo di belle e buone occasioni alle quali manca solo il mare (e i suoi prodotti) comunque compensato dalla ricchezza paesaggistica ed enogastronomica del Garda.
Non c’è da stupirsi, quindi, che un tour tra le tavole e le cantine veronesi allinei tappe per tutti i gusti.
Il lago, appunto, bordato dalle onde salienti degli uliveti.
La collina, che pare fatta apposta per crescervi i vini migliori.
La montagna, che non sarà quella gloriosa delle alte quote, ma che conserva mete e produzioni interessanti.
E – giù dove scorrono il Mincio e l’Adige mescolando il Veneto con il cuore della Val Padana – una Bassa che è unica nel Veneto.
Il verde del monte Baldo specchiato nel blu del lago. Si parte dal Garda, sovrano del paesaggio veronese e calamita del turismo europeo.
Lungo le rive vi sopravvive, nei ristoranti migliori, la tradizione del pesce d’acqua dolce: il memorabile e raro carpione che ha dato il nome a una preparazione, le più frequenti trote lacustri che arrivano a superare i 10 chili, le piccole àole che sarebbero alborelle… ma vuoi mettere chiamarle col loro nome locale!
Sopra la costa gardesana, dove i terreni s’increspano sovrastati dalla mole del monte Baldo – in stagione punteggiato dal verde vivo dei boschi di castagno, specie sulle pendici sopra San Zeno di Montagna dove si raccolgono i marroni migliori – ecco il vasto bacino dell’ulivo. L’area degli uliveti si spinge fin dentro la provincia, fino a congiungersi ai terreni confratelli della Valpolicella, l’altra importante area dell’olio Dop veronese.
Il re dell’enologia veronese: il prezioso Amarone. Detta la parola Valpolicella, si deve dire vino. Anzi: grandi vini Doc del Veronese.
Se sul lago e nei suoi dintorni hanno riempito i bicchieri il bianco Lugana, il Rosso del Garda e il Bardolino – che nella qualità Superiore è tutelato dalla Docg, come all’altro capo della provincia il Recioto di Soave – e se verso nord, sud e ovest campeggiano i Valdadige, il Bianco di Custoza e gli Arcole, a dipingere la fama delle aziende vitivinicole veronesi sono il Soave in bianco e il Valpolicella in rosso (quest’ultimo anche nella morbida e ricca versione come Recioto).
In un’appendice territoriale a cavallo col Vicentino, intitolata al Lessini Durello, è un’altra ricchezza della fornita cantina veronese l’aspro vitigno antico che le cure di cantina hanno trasformato in eleganti bollicine.
Ma il re dell’enologia provinciale è – senza demeriti altrui e però con incontrastata sovranità – l’Amarone.
Le uve corvina, rondinella e molinara, prima appassite sotto le attente cure degli enologi e poi vinificate con una maestria che il mercato premia largamente, danno un superbo prodotto che nel cuore della bassa valle tutta vitata, nella zona di più antica coltivazione e più consolidate pratiche di cantina (Negrar, Marano, Fumane, Sant’Ambrogio, San Pietro in Cariano) prende la specificazione di Classico.
Un classico “inventato”: il tortellino di Valeggio. Prevedendo di servire l’Amarone con la selvaggina nobile di piuma o la grande cacciagione da pelo – e magari con qualche forte formaggio di malga dei Lessini ben stagionato – con che cosa si abbinano i vini Doc veronesi? Il gran tour scaligero ricomincia, stavolta in cucina.
Dopo l’obbligatoria citazione degli gnocchi di Carnevale a Verona città, è all’estremo confine con il Mantovano, a Valeggio, che ha casa una delle più note e apprezzate bontà.
Qui, infatti, il tortellino è fisso nei menù: la sfida storica per il primato nelle paste ripiene è temerariamente lanciata all’Emilia.
La tradizione vantata oggi sul Mincio sarebbe addirittura trecentesca e leggendariamente legata alle storie cortesi del “nodo d’amore”, ma la realtà spinge indietro di non molti decenni l’”invenzione” di Valeggio capitale del tortellino… Però quello che importa, in effetti, è che cosa si trova nel piatto: una pasta sempre sottilissima che racchiude l’impasto a base di carne scelta di maiale.
Se vale l’uso corrente che valorizza la forza del prodotto, il tortellino finisce in tavola asciutto, con burro e salvia. Se si segue l’antico uso padano, i tortellini finiscono invece in brodo buono di manzo e gallina.
La pearà con i bolliti e il risotto all’Isolana. E proprio il brodo è uno degli ingredienti della tipicissima pearà, la salsa che solo la cucina veronese ha perfezionato, partendo da un paio di altri componenti in teoria umilissimi: il midollo d’osso del bovino lessato (ingrediente oggi sempre più raro da trovare) e il pane vecchio grattugiato. Un tocco di sale e il molto pepe che dà il nome alla preparazione, ed ecco servita la voluttuosissima cremosità che arricchisce il lesso misto di manzo, vitello e gallina – con accanto la lingua salmistrata e il cotechino cotti a parte – memoria di quando le carni valevano una festa.
Sempre festa è anche intorno ai risotti “all’onda”, come sarebbero sempre quelli veneti, e a quelli più sodamente lombardeggianti che Verona imbandisce con il suo Vialone nano.
Le risaie della Bassa producono un chicco marchiato Igp di media grossezza, dalla sezione tondeggiante e con la testa tozza, perfettamente in grado di reggere la cottura a fuoco alto e mestolo di brodo dopo mestolo. La morte sua, come dice la storia culinaria della zona, è nella ricetta del riso all’Isolana (che fa sagra grande a Isola della Scala ogni anno tra settembre e ottobre, con mezzo milione di presenze) in cui la cottura a pilaf si marita con una ricca quantità di carne fresca di maiale e vitello, già macinata, salata e conciata, rosolata nel burro con il rosmarino.
Con l’impasto di solo maiale che serviva da test prima dell’insaccatura di salsicce, salami e soprèsse, si fa invece il risotto col tastasàl, altro clou tra i primi piatti che vedono accompagnarsi il riso scaligero anche alla zucca della Bassa, al radicchio rosso di Verona Igp, agli asparagi di Cavaion e al luccio del Garda.
E naturalmente – perché no? – pure all’Amarone versato in casseruola a trequarti cottura e servito con grande successo nelle interpretazioni degli chef veronesi.
Il pandoro, il nadalìn e l’ofella d’oro. Se restano ancora robusto l’appetito e viva la curiosità enogastronomica, c’è spazio in questo menù delle terre scaligere per i dolci natalizi, da servire con i vini Recioti di una valle o dell’altra.
Il pandoro fino a mezzo secolo fa era un consumo poco più che locale, poi è iniziata la lunga – e su moltissime tavole vincente – rincorsa contro il panetùn milanese e oggi i numeri delle due produzioni sono da capogiro. I grandi gruppi dolciari veronesi ne producono una novantina (panettone) e una settantina (pandoro) milioni di pezzi.
Cugino minore e più rustico del pandoro è il nadalìn, che ha nel nome il tempo di produzione e di consumo.
Specialità antica a forma di stella a più punte, il nadalìn resta ancora tutto veronese e si trova solo in poche pasticcerie che lo lavorano secondo un’antica ricetta a base di uovo, zucchero, farina e burro. Vaga parente è l’ofella d’oro affermatasi ultimamente a Bovolone, dolce anch’esso natalizio, ma a forma di tronco di cono con copertura di mandorle tritate.
Invernale è anche il mandorlato di Cologna Veneta, mentre tutto l’anno si gustano le sfogliatine di Villafranca. Tra Sant’Antonio Abate patrono dei campi e il martedì di Carnevale alla coppia classica di dolci veneti frìtole-cròstoli si affiancano – a Verona e nella sua provincia – i rufiòi (festeggiati da un’Antica Sagra alla Costeggiola di Soave) di forma triangolare e fritti in olio e strutto, fatti di una sfoglia farcita con biscotto, mandorle, canditi, cioccolato, zucchero e rum.
Info: www.fieradelriso.it – www.oliogardadop.it – www.ilbardolino.com – www.vinocustoza.it, www.consorziovalpolicella.it – www.ilsoave.com