– di Antonio Trentin –
Dall’alto del colle la Pieve di San Giorgio domina uno degli scenari più affascinanti del Veronese: quello di Sant’Ambrogio di Valpolicella, uno dei cinque Comuni in cui l’antichissima tradizione vitivinicola della zona può vantare il massimo della “classicità”.
Le morbidezze del verde destinato alle glorie enologiche si contrappongono, nell’ambiente della Valpolicella, alle tracce della tradizionale lavorazione di pietra, marmo e tufo.
Una realtà economica e artistica bimillenaria, questa, che ha una sorta di eloquente “manifesto” proprio nella massiccia solidità della Pieve. E lì intorno, per tutto il borgo, nel recente ricco rifacimento del moderno arredo urbano delle vie che circondano San Giorgio, tra le quali si aprono scorci panoramici verso i colli a vigneto e in lontananza verso il lago di Garda.
La chiesa biabsidata è tra gli esempi migliori del romanico nel Veneto occidentale.
La cita per la prima volta una bolla di papa Eugenio III del 1145.
La completano all’esterno la suggestione dell’adiacente chiostrino d’inizio XII secolo, fatto di snelle colonnine, e la poderosa sicurezza del campanile.
La arricchiscono all’interno – di grande suggestione – un più antico ciborio (foto) di epoca longobarda (al tempo del regno di Liutprando, prima metà dell’VIII secolo), gli affreschi abbastanza ben conservati del Mille o poco più, un fonte battesimale degli inizi del XII secolo e i resti di altre pitture parietali che si spingono fino al Quattrocento.
Quelle dell’XI secolo sono di notevole interesse: nel semicatino dell’abside occidentale un Cristo giudice con un mantello rosso sulla spalla e i simboli degli evangelisti; nel giro dell’abside tre serafini; sulle pareti un giovane santo soldato con un corto mantello bordato di gemme e un santo con barba in una tunica striata di verde.
Sopra l’attuale altare, inoltre, spicca un arco trionfale con tracce di un angelo, di un Battesimo di Cristo e di tre anziani in vesti rosse.
Sono di epoca successiva gli affreschi sulla parete destra della chiesa: un’Ultima Cena imbandita con stoviglie tipiche del Due-Trecento e un Adamo nel Paradiso Terrestre che mangia la mela proibita.
L’essenziale ma elegante ciborio longobardo, oggi altare maggiore, conserva due rare e ben leggibili iscrizioni che lo raccontano – con le parole del diacono Gondelme – come commissione ordinata da Refol gastaldo e costruito sotto Liutprando dal capomastro Orso e da Iuvintino e Iuviano allievi, mentre la diocesi di Verona era retta da Domenico vescovo, con Vidaliano e Tancol rettori della pieve e con Vergondo e Teodoalfo scarii (oggi li si chiamerebbe assessori…). Un elenco di nomi che ben rappresenta il tempo della vicinanza e commistione tra la cultura post-romana e quella longobarda.
La storia del ciborio è quella di un fortunato salvataggio: appartenente all’edificio di età longobarda, fu poi scomposto per non precisati utilizzi successivi, tra cui la funzione di sostegno di un altare d’inizi Quattrocento; finito in abbandono, fu valorizzato con restauri a
partire dal 1923.
Da vedere nei pressi della Pieve ci sono il piccolo museo e gli scavi archeologici sul pendio della collina.
Da segnare in agenda c’è la Festa de le Fae: appuntamento alla seconda domenica di novembre con una sagra che recupera radici pre-romane – di quando in Valpolicella vivevano i poco documentati Arusnati – e che, tra i fumi e i profumi di un enorme paiolo, imbandisce nella piazzetta presso San Giorgio un minestrone di fave servito in segno di buon auspicio ad abitanti e visitatori.
(12 giugno 2017)