– Sulla Via Francigena di Tuscia attraverso la storia di vini, sante e (forse) peccatrici

– di Antonio Trentin –

Restano lontanissimi e inarrivabili i numeri che il Camino de Santiago – nel ventennio della riscoperta da parte di fedeli e marciatori – sta sommando tra i Pirenei e l’Atlantico, nel Nord della Penisola Iberica, stagione dopo stagione. Ma anche l’itinerario storico dell’antico pellegrinaggio a Roma dal Centro Europa, la Via Francigena, sta crescendo in notorietà e presenze.

Via Francigena TusciaI sentieri di Aragona, Navarra, Castiglia y León e Portogallo-Galicia – da percorrere con gli scarponcini ai piedi e lo zaino in spalla – sono entrati nel panorama del turismo giovanile (e non solo) installandosi ben dentro l’immaginario di singoli e gruppi mossi non soltanto dallo spirito religioso, ma anche dalla volontà d’incontro umano e culturale.

Meno praticata, ma in riscoperta, è la strada per la basilica di San Pietro che seguivano i pellegrini medievali dal Nord della Francia. Anzi: dalla britannica Canterbury, perché il tracciato principale è quello che da lì percorse in 79 tappe l’arcivescovo Sigerico nel 990, attraverso Francia, Svizzera, Val d’Aosta, Pianura padana, Appennino e le colline tosco-laziali lungo la Via Francigena di Tuscia.

Via FrancigenaQuest’ultimo tratto – che i pellegrini diretti alla sede papale percorrevano dopo più di 1500 chilometri di fatiche – è, oggi come un tempo, il più affascinante per la qualità del paesaggio e per l’addensarsi delle occasioni artistiche e architettoniche. E il centinaio di chilometri prima di Roma lungo le campagne viterbesi, attraverso borghi e città dalla storia bimillenaria, è probabilmente il meglio del meglio.

La Via Francigena di Tuscia entra nel Lazio a Centeno, cento miglia dalla capitale, il borgo che fu per secoli confine e dogana dello Stato Pontificio. E subito il percorso s’inoltra nell’accidentata geografia costruita dalle geologiche vicende dell’area volsina, per toccare e aggirare il lago di Bolsena, il più grande tra quelli vulcanici in Europa.

Acquapendente e Bolsena-paese offrono le memorie del grande romanico e del grande barocco, insieme con due riferimenti religiosi importanti.

Nel primo borgo una basilica del Santo Sepolcro indica che la Via Francigena era destinata a non fermarsi a Roma, per i più devoti e coraggiosi, ma a proseguire dai porti dell’Italia Meridionale verso la Terra Santa e Gerusalemme. A Bolsena la tomba di santa Cristina martire ha accanto l’altare del miracolo eucaristico che nel XIII secolo fece istituire la festa del Corpus Domini.

 Viterbo Via FrancigenaPrima di toccare Viterbo papale, la Via Francigena di Tuscia passa per quel Montefiascone che sembra portare nel nome la sua fama enologica (ma in realtà l’etimologia è tutt’altra e non accertata).

Fu qui che la passione nordica per il vino buono face battezzare l’Est! Est!! Est!!!, oggi bianco Doc di gran pregio.

L’aneddoto è questo, del 1111. Scendeva verso Roma, al seguito di Enrico di Franconia che andava a reclamare l’incoronazione a imperatore, un vescovo-feudatario tedesco, Johannes Defuk, amante del bicchiere. Si faceva precedere dal servitore-coppiere Martin, incaricato di cercargli ogni volta il vino migliore, segnando un bel “c’è!” (“Est!” appunto) sulla porta della locanda giusta. A Montefiascone di “Est!” il diligente Martin ne scrisse tre di fila, entusiasta del bianco del luogo. Che il Defuk onorò andando e ritornando da Roma, e fermandosi a vivere in paese, dove visse gaudentemente ma brevemente. E dove dispose che ogni anno, nella ricorrenza della morte, venisse versato dell’Est! Est!! Est!!! sulla propria tomba ancor oggi visitabile nella basilica di San Flaviano.

Bullicame Via FrancigenaOrmai in vista di Viterbo la Via Francigena di Tuscia incontra anche Dante e la Divina Commedia.

A Bullicame – in uno scenario unico di candide concrezioni minerali e di vapori sulfurei – fuma la sorgente citata nel canto XIV dell’Inferno: è rimasto scritto nella versione ufficiale della Commedia che quelle acque calde servivano per i peccaminosi bagni delle prostitute viterbesi (“peccatrici”), ma chissà se il poeta voleva invece riferirsi all’uso dell’acqua calda sotterranea che lì facevano le lavoratrici della canapa messa a macerare (“pettatrici”).