– di Antonio Trentin –
Venezia e la cucina Serenissima: un mondo gastronomico lungo un millennio. Nessuna città d’Italia e d’Europa ha goduto come la capitale in Laguna, nei secoli a cavallo tra il Medioevo e l’età moderna, della stessa varietà di occasioni d’incontro con le diversità delle terre e dei continenti allora conosciuti e praticati.
Nessuna città ha incontrato tanto numerose identità anche culinarie, ricavandone produzioni da portare in cucina e suggestioni da trasferire nelle pietanze: quelle delle campagne del Nordest italico di cui era Dominante e quelle, molte e diverse, dei mari dall’Adriatico all’Egeo dov’era Serenissima, di Bisanzio e della Terra Santa al tempo delle Crociate, dei Todeschi che venivano a comprare beni di lusso e spezie, degli ebrei che trovavano rifugio dalle persecuzioni in Spagna e in Centro Europa, dei Turchi che erano avversari ma avevano il fòndaco sul Canal Grande.
Da quasi un millennio e mezzo Venezia è dunque calamita del suo entroterra – che vi manda prodotti e vi scambia novità anche gastronomiche – e ponte di più vasti commerci tra la terraferma e un oltremare variamente ampio a seconda dei tempi e delle circostanze storiche.
Un mondo, quello veneziano, che è stato di volta in volta quello delle iniziali dimensioni lagunari, delle successive vicinanze adriatiche, dell’espansione nel medio oriente mediterraneo, delle esotiche lontananze raggiunte per tramite commerciale nei porti d’arrivo delle vie d’approvvigionamento dall’Asia.
Dai suoi contatti mondiali una tradizione universale. Chiaro e inevitabile che in una cucina così potenzialmente “universale” si rintraccino anche oggi particolarità che la fanno preziosa per i moderni gastronomi.
L’elenco sarebbe lungo: bastino i riferimenti principali…
L’uso abituale di pepe, cannella, noce moscata e chiodi di garofano, che sui moli veneziani e nelle botteghe intorno a Rialto arrivavano passaggio dopo passaggio dalle Indie Orientali.
Il tocco di dolce che le abbondanti cipolle danno al fegato alla veneziana.
L’uso dell’agrodolce nelle preparazioni in saòr con pinoli e uvetta sultanina, sotto cui marinano le sarde fritte (foto) ma anche la suca marina degli orti lagunari passata al forno.
L’uso dell’olio d’oliva, in arrivo dalla Puglia e dalle isole greche, rimasto alternativo all’abbondare del burro o dello strutto nelle ricette di tutto il Settentrione.
I trattamenti del “povero” stoccafisso arrivato dal Nord Europa, teoricamente fuori posto in ambito peschereccio, dove il “fresco” si trova ogni giorno, ma diventato caposaldo in cucina: o tratto fuori dalla sua lignea secchezza nella semplice versione alla cappuccina (olio, sale, prezzemolo e un sentore d’aglio) o definitivamente impreziosito nella versione bacalà mantecato che lo fa diventare una crema bianca e morbida.
La costante presenza del riso di cui la Repubblica fu porta d’ingresso nel Nord Italia tra Sei e Settecento: preparato in risi e bisi “all’onda” (foto) per la festa grande del Doge nel giorno di San Marco oppure nei cento risotti di terra e di mare.
La ricchezza infinita della cucina di mare. Detto sopra del baccalà, toccherebbe alle altre ricette di mare. Che però sono mille e tra le quali bisogna scegliere, raccontandone soltanto le più caratteristiche.
Dunque: il ricco branzino della Laguna da mettere nei risotti e al capo opposto della graduatoria il pesséto popolo, che sarà pure il più umile di tutti, ma che è quello più veneziano, quello che si comprava dai “fritolini” antenati dei fast-food, “fritura” per eccellenza servita in un cono di carta gialla assorbente; le schie conse, i piccolissimi gamberetti grigi della Laguna o del Delta del Po, lessati un minuto (…e non cambiano colore) e poi passati per altrettanto poco tempo con olio, prezzemolo e aglio, per essere serviti sopra la polenta bianca morbidamente adagiata nei piatti; le moeche frite (foto sopra), granchi pescati quando mutano la corazza e sono molli e ben trattabili (a differenza dei cugini minori raccolti quando sono masenete), poi “ingozzati” di uovo sbattuto se li si vuole farciti, e semplicemente infarinati e fritti; il cugino maggiore che diventa granséola (da “granso-granchio” più “séola-cipolla” per la sua forma) e finisce servito nel suo puntuto carapace; le sogliole che a Venezia si chiamano “sfoj-sfògi-sfoglie” e a loro volta vengono passate in marinatura come sfògi in saòr.
In chiusura delle citazioni ittiche, un passo indietro nel menu, per ricordare il primo di pasta più tipico delle mense veneziane: i bìgoli in salsa, pietanza di magro per i giorni di Vigilia nella quale i gloriosi vermicelloni veneti usciti dal “tòrcio” vengono conditi con cipolla molto ben affettata e molto cotta nell’olio d’oliva con l’aggiunta di acciughe dissalate (foto).
Orti lagunari, una ricchezza delle isole poco nota. Venezia è città di mare, ma il contado contadino – e, sorprendentemente per chi è turista nel solo centro storico, soprattutto le isole lagunari dall’abbondante produzione ortofrutticola – le hanno sempre ispirato anche ottime ricette con le verdure.
Principi delle leccornie vegetariane veneziane sono i bisi, i piselli freschi che più semplicemente sono preparati più buoni sono, e che nei tempi dogali, quando mancavano in Laguna, venivano fatti arrivare fin dalla Pedemontana di Borso del Grappa o dal collinare bèrico Lumignano.
Dalla più fertile delle isole arriva nei mercati il carciofo violetto di Sant’Erasmo (foto): i germogli più giovani – le castraùre che non c’entrano con il castrato che dava invece la castradina de la Salute, sotto sale e affumicata – si offrono per un ventaglio di usi culinari, o impanati e fritti o in insalata o in frittata d’uova, oppure ancora in condimento dei “bìgoli” e immancabilmente nel risotto.
Dolci dal dì dei Morti al lungo Gran Carnevale. Le favete dei Morti appallottolate con i colori dell’alchermes e dei rosolii. I caramèi de la Salute versati sul marmo per la festa del 21 novembre e fatti con lo zucchero cotto e brunito e con le mandorle. I bussolài a ciambellina e i sinuosi essi buranèi ricchissimi di burro e di uova, da intingere nel vin santo. I baìcoli da calare nello zabaione per ingentilire con la crema d’uovo la secchezza del loro essere biscottini apparentemente poverissimi. La torta nicolota tipica dei quartieri più poveri della città (con appena i cedrini ad arricchire il minimo che serve per fare un dolce), nata – si dice – nella parrocchia di San Nicolò dei Mendìcoli. I zaleti di farina di mais e molto burro…
La pasticceria veneziana ha libro intero di ricette da sfornare, compendio di preparazioni nelle quali la solidità del territorio veneto si arricchisce con le golosità forestiere.
Chiudendo con l’essenziale e con l’irrinunciabile, sono assolutamente da ricordare – tra tutti gli altri serviti stagione dopo stagione – i dolci del Gran Carnevale veneziano: i galani di pasta sottile fritta – versione dialettale lagunare dei cròstoli veneti e delle varie chiacchiere, bugìe e sfrappole sparse per la Penisola – e la frìtola, buona e ricca fino all’eccesso, regina assoluta e quasi un dolce di Stato nei tempi d’oro della Repubblica Serenissima.
(7 maggio 2017)