– di Antonio Trentin –
Il mix ai fornelli è tra i più rari in Italia. C’è la grande cucina triestina del mare, naturalmente, perché Trieste e il suo golfo hanno una bimillenaria storia di pesca e pescatori. Ma c’è un’altrettanto grande cucina triestina di terra: della tradizione mitteleuropea che gli Asburgo portarono sull’Adriatico nei due secoli in cui la città fu il porto dell’impero, del Carso che si allunga sul confine con la Slovenia, delle campagne slave che mandavano i loro prodotti in città.
E le aspre colline dei dintorni forniscono vini che reggono l’impegno. La Doc Carso allinea i vitigni tradizionali del vicino Friuli (dai Cabernet al Refosco, dal Pinot grigio al Traminer, dal Sauvignon allo Chardonnay), ma vi aggiunge le tipicità giuliane e carsoline. Sono Malvasia, Vitovska e Terrano da andare a bere anche nelle osmizze (dallo sloveno “osem”, otto) che nel 1784 l’imperatore Giuseppe II consentì ai contadini viticoltori di aprire, per appunto otto giorni all’anno, sotto il segno della frasca.
La tradizione “barcolana” di mare. Sulla costa si cuoce leggero: il branzino guarnito viene fatto al forno condito con un pesto di gamberetti, vongole e cozze (provenienti dalle mitilocolture del golfo); il baccalà al sugo è pure preparato pure al forno con pomodoro, acciughe e abbondante prezzemolo (e come in tutto il Nordest è stoccafisso, non merluzzo salato); le canocie in bùsara tingono di salsa di pomodoro le cicale di mare completate con pangrattato, pepe e vino bianco.
Curiosità: la bùsara della cucina triestina è contesa, quanto a derivazione del nome, tra chi la pensa un antico recipiente di coccio o metallo usato dai marinai e chi l’aggancia alla filiera linguistica buggerare-busarare-imbrogliare-intrugliare per l’aspetto assai “misto” che ha la pietanza nella pentola e nei piatti.
Di forti ci sono, invece, i sardoni in savòr: che sarde grandi non sono, ma le acciughe-alici (qui inusitatamente chiamate sardoni barcolani) pescate con la lampara, fritte e poi marinate nell’aceto, lasciate riposare per un paio di giorni tra strati di cipolla a sua volta fritta e aromatizzata con aceto, alloro, pinoli e uvetta.
Fine alternativa dei sardoni: sotto sale, come riserva per ghiotte e sapide preparazioni al profumo di mare.
Tutt’altra raffinatezza hanno un paio di preziosità ittiche da cercare a Trieste: la mòrmora de Miramare, pescata lungo le scogliere e il promontorio sovrastati dal castello costruito attorno alla metà dall’Ottocento dall’arciduca Ferdinando Massimiliano d’Asburgo; e la pàssera co’ i ovi che i pescatori cercano d’inverno, quando è ben gonfia di uova.
L’acquacoltura di acqua salata, infine, manda al fornitissimo Mercato ittico triestino mitili, vongole e fasolari; mentre dalle barche in Adriatico vi arriva il pescato di mare: ombrine, pesce azzurro, branzini, orate e dentici.
Minestre, gnocchi e capuzi che sanno di Mitteleuropa. Robusta e rustica è la gastronomia di terra della provincia. A cominciare dalla minestra più tipica della cucina triestina: la jota.
Per cuocerla servono crauti, pancetta, fagioli e patate, ma è bene metterci pure una bracioletta o qualche costina di maiale e magari una salsiccia: tanto per non risparmiare sulle calorie e sull’uso di prodotti tipicamente centroeuropei. I quali sono presenti anche nella minestra de bòbici (cioè di chicchi di mais cotti con fagioli borlotti, patate e prosciutto affumicato), nella minestra de bisi spacài fatta cremosa dai piselli secchi spezzati e nella minestra di orzo e fagioli.
Decisamente col timbro Mitteleuropa vanno in tavola anche gli gnochi de pan e gli gnochi de susini, questi ultimi buoni come primo e come dessert, con il loro frutto nascosto dentro; il prosciutto cotto di Praga, leggermente affumicato e servito caldo, tagliato a mano; e il salame d’oca, dal forte sapore derivante dalla concia generosa con sale, pepe e pimento.
Miscela perfetta di tradizioni di terra e di mare è la rara calandraca: la ricetta antica la vuole fatta con la carne salata che si portavano in nave i marinai, prima bollita e poi passata “in tecia” come un gulasch ungherese. E naturalmente tutto continentale è anche l’utilizzo dei capuzi, i crauti consumati in versione particolarmente agra.
Agnello e formaggi, le tipicità carsoline. Le magre alture del Carso ospitano greggi che danno l’agnello istriano della tradizione pasquale. Le madri – pecore di razza istriana (o carsolina) la cui presenza è attestata dal XV secolo – passano poi a produrre un latte ricco e saporito che è alla base della produzione di formaggi “per cultori” di alto pregio organolèttico.
Zafar, Mlet, Jamar sono apprezzati prodotti “di nicchia” che la moderna arte casearia dell’area carsolina conserva ed elabora dai tempi passati, quando le pecore percorrevano le aride lande esposte ai venti di bora.
Ma il più noto e apprezzato formaggio della zona è il Tabor, prodotto con latte vaccino, erede da tempo immemorabile di una produzione che lavorava il “crudo” con antiche tecnologie tradizionali (e che in alcuni casi si mantiene com’era) e che nell’ultimo trentennio è stata riorganizzata intorno alla Latteria sociale del Carso.
Da ricordare sono anche i preziosi caprini e le piccole forme aromatizzate con le erbe dell’altopiano.
Da segnalare è, inoltre, la speciale produzione del caseificio di Monrupino, al confine tra Carso Triestino e Slovenia: il Monte Re, omonimo della vicina montagna chiamata Nanos in sloveno, che s’iniziò a produrre in tempi austroungarici, allora con prevalente latte ovino e caprino. Oggi le medie forme cilindriche (17-18 cm di diametro) sono fatte principalmente di latte di mucca.
Quanto a produzione di salumi, il crudo del Carso si accompagna al cotto di Trieste. Infine, sulle pendici collinari di meridione, dove non soffiano i venti più freddi, gli ulivi danno un profumato Tergeste Dop.
Pasticceria finissima tra Vienna e Venezia. Prestnitz di imperiale ascendenza. Favette dei Morti di tradizione anche veneziana. Ai due capi degli usi di pasticceria triestini ci sono questi due tipicissimi dolci. In più: la pinza pasquale di acqua, farina e lievito con zucchero, burro, uova, olio, miele, latte, sale e aromi che ciascuno aggiunge secondo quel che ha in casa o in mente.
Il prestnitz si nobilita raccontandosi inventato per una visita a Trieste dell’imperatrice Sissi, moglie di Francesco Giuseppe: una pasta sfoglia spennellata di albume d’uovo racchiude in forma di chiocciola un impasto a base di frutta secca, marmellata, uvetta, cacao, rum (variante con la pasta lievitata: la putizza).
Le favette sono preparate con mandorle tritatissime, zucchero polverizzato, albume, un po’ di farina di riso e qualche goccia di liquore di amarene (il Maraschino ereditato dalla tradizione di Dalmazia, ricavato dalle vìsciole e chiamato anche Sangue morlacco). Per colorarle: cherry in rosa o cacao in marrone.
Ultima citazione “dolce” sulla cucina triestina: il miele di marasca, assolutamente tipico della tradizione giuliano-dàlmata.
(da A tavola con il Nordest 2012, a cura di Luigi Costa)