– di Antonio Trentin –
«Guardi qua questo… Adesso è il più antico che ho. Ha quattromila anni. Certificati col carbonio 14». Gianfranco Valente ha in mano un cuco dei suoi, uno dei meno appariscenti, uno dei più affascinanti.
È un fischietto di terracotta con la testa di capro. Il pugno di argilla chiara, diventata micro-arte chissà quando nei secoli, ha appena qualche tratto marcato per abbellire una forma semplicissima. La coda è tutta segnata dalle migliaia di soffi che le sono stati fatti dentro, per trarne quel sibilo pungente che è l’essenza di una “cucologia” diventata qui – nella casa-museo sull’Altopiano dei Sette Comuni dove tutto pare fischiarti intorno – invidiabilissima “cucomania”.
Il cuco è afghano – anche se il look non lo dice, perché potrebbe provenire da dappertutto – e lui, il Valente, se lo coccola con devozione: «Mi hanno chiesto di tenerlo in mano anche altri collezionisti…» . Avranno fatto tutti dèbita e umile istanza perché l’occasione “archeologica” lo richiedeva e perché Valente è indubitabilmente il Re dei Cuchi in carica.
Il titolo non glielo può negare nessuno. Lui glissa, quando lo si interroga su questo. Ma dietro la grande barba e sotto i baffi bianchi stira le labbra in un sorriso di assenso.
Aveva cominciato a Torino, mescolando la passioncella collezionistica con l’abile arte lito-tipografica che gli ha dato da vivere e da spendere in fischietti.
Quando è ritornato alle radici (come dice il cognome tipico dell’Ovest altopianese) la passione è esplosa.
In quella che era la vecchia scuola inter-frazionale del territorio roanese al di là della Val d’Assa – in un sito toponomasticamente impossibile, dove Tresché non è più Tresché-Conca e Cesuna non è ancora Cesuna, e perciò è stato chiamato Tresché-Cesuna – ha impiantato trent’anni fa la sua “Tuttagrafica” e ha cominciato a far incetta di cuchi in grande stile.
In tre decenni è arrivato a superare quota quindicimila. Nessuno ne ha avuti così tanti, da nessuna parte al mondo. Neanche quello che è stato il suo unico possibile contendente continentale: Rolf Mari, tedesco dell’Assia, di Dieburg vicino a Francoforte. Prima dell’avvento del Valente tresché-cesunese, era stato lui, lì in Germania, a battere tutti: «È un regalo suo questo fischietto vecchio di quaranta secoli. Fa parte di un lotto di sei che vengono dall’Afghanistan. Due li ha fatti esaminare con il test del radiocarbonio. I quattromila anni sono stati fissati così…» .
Valente non è mai arrivato fino in Asia Centrale a fare l’Indiana Jones alla Ricerca dei Cuchi Perduti, ma fischietti di quella zona ne ha parecchi, dentro le vetrine che affollano il suo museo, affacciato sulla discesa che da Tresché porta nel “catino” dell’Altopiano. Per esempio quelli dell’Uzbekistan, trovati durante un viaggio per le repubbliche ex-sovietiche. «Per cercare sono stato in Russia. Sono sceso fino a Togliattigrad…» , città che nel nome profuma di paleo-comunismo perduto e fabbriche Fiat gloriosamente esportate a Est.
Le figurine di terracotta uzbeke sono deliziosamente arcaiche, piene di esotismo. «Però non è quella russa la terra più lontana dove ho cercato. In Australia, dov’ero per visitare parenti, ci ho provato anche lì…» : ma gli aborigeni, evidentemente, soffiano dentro qualcosaltro, la creta fischiante non la cuociono neanche nelle riserve né la importano per i baracchini dei souvenir turistici, e quindi la collezione del Museo non è riuscita ad incrementarsi con nessun cuco degli antipodi.
In compenso Valente ha variamente e vastamente girato per l’Europa della ceramica popolare: «Si è trattato di una malattia cronica» dice del suo peregrinare, non frequentissimo, ma sempre accanito. Quasi dappertutto ha trovato qualcosa di buono. Prende in mano un’altra figura minuta: «Questa ochetta è di un cucaro rumeno che non ne ha fatte più: è morto poco dopo che ero passato». Cosicché l’operina d’arte poverissima, colorata con tinte naturali e con una passata grossolana di vernice invetriante, diventa – in mano a chi l’ha ricevuta in regalo e l’apprezza – un piccolo unicum da conservare gelosamente.
Ma se Valente è il Re, la consorte Vania è stata la Regina dei fischietti figurati. Lei ha mantenuto sempre il distacco. Ha esercitato in dosi massicce la critica. Ha usato il femminile buon senso finanziario. Minacciando perfino rappresaglie: «Il prossimo viaggio che fa per i cuchi, quando torna non trova più niente» ha tuonato per decenni. Ma poi, sotto sotto, un filo di compiacimento lo ha lasciato sempre comparire, mascherato da una dichiarata riluttanza.
Che cosa ci sia a Tresché-Cesuna non si può raccontarlo. Bisogna andare a vederla, la fantasmagorìa di colori e decori. Valente sarà di sicuro a disposizione per mostrare, spiegare, invogliare.
La raccolta si è incrementata soprattutto grazie alla rassegna biennale che per vent’anni ha portato in Altopiano decine e decine di lavori d’artista e una straordinaria ricchezza di soggetti e di tecniche.
Con il timbro postale di Roana sono partiti, ad ogni anno pari, centinaia di inviti che hanno raggiunto gli artisti di un catalogo che si è accresciuto ogni volta («la definizione corretta è fìguli, deriva dal nome latino degli artigiani modellatori della terracotta» precisa Valente).
Ad ogni anno dispari, un carico di pacchetti ben imballati è arrivato al Museo per finire poi in mostra nella sala del consiglio comunale a Canove e soprattutto in gara. Qualche pezzo, ogni volta, si è fermato nelle bacheche.
«Era stata ogni anno che passava sempre più una fatica» commenta il Re dei Cuchi. «Servono contributi», ha predicato per tante e troppe volte il supercollezionista-curatore museale, praticamente dal giorno dell’inaugurazione, garantendo che il suo non era un batter cassa per interesse privato («le sale, d’altronde, sono sempre aperte gratuitamente, lo vedono tutti quelli che ci passano»). E i contributi hanno faticato sempre ad arrivare. Il lucro, poi, è rimasto sempre in un orizzonte lontanissimo. Fino ad arrivare all’obbligo forzato di chiudere le rassegne internazionali.
Ma a proposito di soldi, acquisti e prezzi: quanto è giusto che costi un fischietto? Valente “squalifica” senza pietà gli eccessi che ogni tanto ha visto in vetrina o sente raccontare a proposito di fìguli troppo esosi: «Un cuco dovrebbe costare tra i sette-otto e i cinquanta euro. Di più non si giustifica…» . Se non nel caso di super-artisti che – più che modellare fischietti – vogliono fare scultura in terracotta, arte dotta che con la tradizione popolar-folklorica non c’entra quasi più nulla.
Di pezzi del genere ce ne sono molti anche a Tresché-Cesuna, ma non è questa, in realtà, la cucologia che fa Re il Valente.
È piuttosto quella degli oseleti o dei napoleoni prodotti da duecento anni a Nove, degli ometti pugliesi che satireggiano i potenti e delle caprette bielorusse multicolori, dei galletti portoghesi e delle bàbuske ucraine, delle ochette balcaniche che trillano con l’acqua in pancia per modulare il fischio, delle teste andine della Pacha Mama (la Madre Terra con i tratti somatici degli indios) o degli uccelli tropicali modellati nella terra nera del Messico e cotti oggi come li cuocevano gli Aztechi.
Il regno vero dei cuchi, per un cultore vero, è questo…