– di Antonio Trentin –
Tra i milioni e milioni e milioni di pietre che cinquemila anni di rurali fatiche hanno sgombrato nelle campagne pugliesi per farle adatte all’agricoltura – strappando alla natura terreni avari e rendendoli preziosi – le più famose nel mondo sono quelle diventate trulli nella Valle d’Itria. Ma, quanto a costruzioni tipiche alzate a secco e sopravviventi attraverso i secoli, in Puglia non ci sono solo quelle spettacolari di Alberobello e dintorni.
I muretti – riconosciuti dall’Unesco nella Lista del Patrimonio dell’Umanità con le altre tradizioni “in pietra a secco” del Mediterraneo – fanno parte del paesaggio della regione.
Nati dall’accumulo dei materiali di bonifica del suolo, diventarono presto il mezzo migliore per segnare i percorsi, demarcare le proprietà, riparare le colture dai venti, contenere i bestiami.
Hanno resistito al mutare delle tecniche agrarie. Sono uguali a quelli allineati mille anni fa che erano uguali a quelli costruiti al tempo dei Romani e prima ancora al tempo dei Messapi. Senza di essi la Puglia non sarebbe Puglia.
Ma sono le diffuse e sorprendenti costruzioni rustiche alzate nei campi e tra gli uliveti per essere di complemento all’attività dei contadini – improvvise presenze della mano dell’uomo tra il verde – ad avere un’identità tutta caratteristica, a fare da particolarità edilizia del territorio e a essere una testimonianza antropologica unica e interessante.
Il Salento è l’area che ne conserva di più. E che le chiama – oltre che con le più generiche denominazioni di caseddha e truddu – con un paio di nomi (e relative varianti) ben adatti a indentificarne le funzioni: pajara (pajaru, pagghiaru) o furnu (furnieddhu).
I più spettacolari stanno ben dentro gli uliveti, tra le contorte piante secolari su cui maturano le olive della più fertile e ricca regione olearia d’Italia (quelli nelle foto sono nella campagna di Melendugno, in provincia di Lecce).
Venivano utilizzati come riparo nelle ardenti ore meridiane estive o nelle giornate piovose dei lavori invernali, come magazzino degli attrezzi agricoli e dei foraggi, come grandi camere protette dove cuocere il pane, biscottare le friseddhe e “tostare” i fichi seccati al sole.
La tecnica costruttiva è millenaria, ma non ci sono prove per poter spingere lontanissimo nei secoli la tradizione di pajare e furnieddhi. La struttura è al tempo stesso complessa come progetto e semplice in esecuzione.
Il thòlos che sale conico all’interno, giro di pietre dopo giro, è lo stesso delle costruzioni micenee diffusesi nel Mediterraneo durante l’età del bronzo. La forma esterna, tronco-conica o tronco-piramidale, è fatta di grandi pietre squadrate. Tra l’uno e l’altra, tanto pietrame di riempimento e altro materiale più minuto, buoni per creare l’isolamento utile contro il caldo e contro il freddo.
Piccola la porta, per non mettere in pericolo la stabilità dei muri a secco, per ridurre al minimo la dispersione termica, e magari anche per aiutare nell’eventuale difesa dai pericoli.
Sempre suggestive le scalette esterne, man mano elevate insieme con l’alzarsi della costruzione, indispensabili per la manutenzione delle parti alte, utilizzate come banchi per seccare frutti, pomodori, peperoni.