– di Antonio Trentin –
Scavato sui resti di un castello medievale per cercare le memorie degli antichi Messapi, il promontorio di Roca Vecchia – spinto nell’Adriatico sul Canale d’Otranto – riservò agli archeologi degli scorsi anni Ottanta la sorpresa di una città del 1450 avanti Cristo.
I massicci resti di mura, porte e torri stavano lì sotto, protetti dall’abbandono dei secoli, dopo essere stati le fondazioni edilizie dell’abitato messapico (V-IV secolo a. C.).
Trascurato, fortunatamente, dai Romani, il sito era stato abitato in tempi bizantini da monaci solitari e poi riedificato nel XIV secolo da Gualtieri di Brenne conte di Lecce. Del suo castello restano poche pareti massicce, alzate sulle acque limpidissime.
Conquistato dai Turchi un secolo dopo e diventato base per le scorrerie su coste e campagne della Puglia, poi liberato ma frequente approdo dei corsari barbareschi, il fortilizio sul mare venne distrutto alla metà del Cinquecento per ordine del governatore spagnolo della Terra d’Otranto. Lo sostituì una delle centinaia di torri di avvistamento volute da Carlo V e Filippo II che punteggiano le coste del Sud Italia.
Una fortuna per l’archeologia, tutto questo. Il mancato insediamento romano preservò lo stato urbano messapico, il deperimento edilizio post-medievale evitò successive costruzioni, il pericolo al tempo del “Mamma li Turchi!” sconsigliò il formarsi di un nuovo villaggio.
Quando iniziò le sue ricerche negli anni Ottanta, il professor Cosimo Pagliara – vero e proprio “padre scientifico” di Roca Vecchia – potè spingere scavi, ritrovamenti, congetture e scoperte fino a un punto insperato.
Il clou del luogo – che si visita, per ora solo in una piccola sua parte, con gli addetti della cooperativa archelogica culturale VivArch di Otranto (https://www.facebook.com/ReteVivArch/) – è proprio l’ingresso della città: una colossale porta-fortezza che si articola per 25 metri di profondità e che doveva alzarsi per una dozzina di metri.
Chi la costruì? Non si sa. Popolazioni provenienti dall’Egeo o da Creta, probabilmente. Genti di mare, ma capaci di cavare, spostare e collocare pietre gigantesche, come a Troia o a Micene, e di farle diventare un centro abitato possente e stabile. Strutturate con gerarchie funzionali precise. Legate ai commerci marittimi di beni lavorati e prodotti agricoli in un punto-chiave delle rotte nel Mediterraneo centro-orientale.
La prima Roca Vecchia di quell’ignota gente dell’età del bronzo finì in modo traumatico. Arrivò qualcuno, bene armato. Assediò ed espugnò la grande porta difensiva, la bruciò e penetrò nell’abitato.
La vicenda è raccontata dai reperti nel museo archeologico di Lecce: un pugnale e i resti di un giovane egeo (uno degli assalitori?) ucciso sotto la torre di guardia, un’intera famiglia riparatasi dietro grandi vasi e morta durante un incendio. Ed è stata ricostruita dai ricercatori odierni in un bel saggio – che si ritrova nel sito Faceboo di VivArch – che ipotizza lo svolgersi di una battaglia contro invasori provenienti dal mare (https://www.academia.edu/30273002/Lassedio_di_Roca._Il_volto_della_guerra).
Ne furono costruite un’altra e un’altra ancora, via via modificando lungo i secoli le caratteristiche dell’insediamento. Fino all’installarsi dei Messapi, quando ormai era l’età del Ferro, e all’ingresso dell’area nel tempo della storia.
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