– A Morro d’Alba nelle Marche, per la Scarpa militare e il Lacrima rosso nel bicchiere

Antonio Trentin

Lacrima di Morro d’Alba: l’etichetta di questo grande vino dei colli alle pendici appenniniche incuriosisce. Da dove viene questo “rosso” che, nonostante il nome, con le Langhe – gloriose per vendemmie e paesaggio – non c’entra proprio?

Si va un po’ in cerca sulle mappe e nelle guide ottenendo come risultato tre piccole scoperte: che, appunto, l’Alba piemontese non c’entra proprio; che per trovare questo Morro diventato d’Alba solo nel 1862 bisogna percorrere le morbide rotondità verdeggianti delle Marche in vista dell’Adriatico; e che lì, in paese, l’urbanistica secentesca aggiuntasi alle preesistenze militari medievali ha prodotto un unicum assoluto.

Si chiama Scarpa e chissà dove si dovrebbe viaggiare in Europa per trovarne un’altra di uguale, se mai ce n’è una. Il termine non ha a che fare con la calzoleria, ma con l’architettura bellica: designa la parte bassa delle fortificazioni, quella su cui si appoggiano le mura difensive dell’irregolare pentagono su cui s’imposta Morro.

Ci fosse anche un fossato a proteggere la fortezza – un po’ cittadella un po’ castello – di là ci starebbe un controscarpa, secondo un modello rimasto in uso fino al Settecento nelle grandi città europee. Ma a Morro d’Alba, piccolo e perfetto borgo di cocuzzolo, la controscarpa non serviva: bastava quella che si è presa la maiuscola ed è diventata la sola Scarpa italica che dalla metà del XVII secolo regge un percorso di ronda coperto tutt’intorno all’abitato.

Tra il Due e il Quattrocento a Morro si costruirono e si modificarono le mura necessarie per proteggere gli abitanti nelle guerre tra Senigallia e Jesi, tra i Malatesta di Rimini e Ancona. Passate tutte le Marche sotto il dominio papale, non ci fu più bisogno di rinnovare le difese. Ma – ed ecco il caso eccezionale – a partire dal 1654 tutta la cinta muraria divenne fascia di saturazione edilizia e il camminamento divenne un portico aperto verso la campagna sovrastato da abitazioni.

Oggi come allora la Scarpa è l’insieme di questo lungo balcone aperto sui colli a vigneto – con alcuni scorci stupendi e purtroppo qualche bruttura moderna in vista – e dei sottostanti corridoi, cantine, cunicoli e grotte che formano un secondo paese sotterraneo.

Oggi come un tempo le famiglie ci conservano l’olio, i formaggi e il vino, il Lacrima festeggiato con una sagra nel primo fine-settimana di maggio (attenzione: il nome è rigorosamente maschile) ma anche il Verdicchio e il Rosso Piceno. Di nuovo ci sono alcuni preziosi riutilizzi: per attività economiche ed enogastronomiche, per sedi associative e per l’interessante Museo Utensilia.

Spingendosi dentro la Scarpa, il museo presenta una ricca raccolta di strumenti della civiltà contadina e racconta una realtà sociale ed economica tipica della storia rurale marchigiana: quella della mezzadria a lungo prevalente nella gestione dei fondi agricoli e anche attualmente ben leggibile nel territorio attraverso il disegno dei poderi e la punteggiatura delle case coloniche (da vedere i modelli nelle sale museali).

Di Morro si possono ammirare il palazzo comunale del 1763-1775 e la chiesa di San Gaudenzio, anch’essa settecentesca, che alle decorazioni tardo barocche accompagna un raro pavimento in pietra del Furlo, cavata nella zona della Gola che per secoli è stato il punto cruciale della Via Flaminia che da Roma conduceva a Rimini.