– In giro per le sette province del Veneto enogastronomico tra tavole e cantine

Non è arbitrario né ingiustificato il vanto dei veneti quando parlano della loro regione come di un compendio unico dell’italica varietà dei paesaggi enogastronomici. Più che altrove, infatti, ha un senso parlare di molteplicità di ricchezze del territorio proprio qui, nelle sette province di un Veneto che – unico nella Penisola – offre ai palati prelibatezze spazianti dalle Alpi al mare, dal più grande lago italiano ai due più grandi fiumi, dalla pianura padana alle colline pedemontane e berico-euganee.

Qualsiasi indicazione di un percorso dentro queste ricchezze, anche la più dettagliata e diffusa, fa torto al troppo che ne resterebbe comunque escluso. E così, quando si racconta del Veneto a tavola non si può che andar per cenni sommari, citando quei “qualcosa” che più particolarmente marcano le tradizioni locali. 

Venezia: la grande cucina che fu al centro del mondo

Nessuna città d’Italia e d’Europa ebbe a godere, nei secoli a cavallo tra il Medioevo e l’età moderna, di occasioni d’incontro con le diversità del mondo allora praticato quante ne trovò Venezia. E nessuna città incontrò – ricavandone pietanze ben imbandibili in Laguna – tanto numerose identità anche culinarie da conoscere e interpretare: quelle delle campagne del Nordest italico di cui era Dominante e quelle dei mari dall’Adriatico all’Egeo dov’era Serenissima, e poi le altre di Bisanzio e della Terra Santa al tempo delle Crociate, dei “todeschi” che venivano a comprare beni di lusso e spezie, degli ebrei che trovavano rifugio dalle persecuzioni in Spagna e in Centro Europa, dei Turchi che erano avversari ma avevano il loro fòndaco commerciale sul Canal Grande.

Inevitabile che in una cucina così potenzialmente “universale” si rintraccino anche oggi particolarità che la fanno preziosa per i moderni gastronomi. L’elenco sarebbe lungo: bastino i riferimenti principali, serviti in un gustoso menù alla rinfusa che sa di antico come pochi…

Il tocco di dolce, dunque, che le abbondanti cipolle danno al fegato alla veneziana. L’uso dell’agrodolce nelle preparazioni in saòr con pinoli e uvetta sultanina dove cui marinano le sarde fritte ma anche la suca marina degli orti lagunari passata al forno. L’uso dell’olio d’oliva, un tempo in arrivo dalla Puglia e dalle isole greche, rimasto alternativo all’abbondare del burro o dello strutto nelle ricette di tutto il Settentrione. L’uso abituale di pepe, cannella, noce moscata e chiodi di garofano, che sui moli veneziani e nelle botteghe intorno a Rialto arrivavano dalle Indie Orientali. La costante presenza del riso di cui la Repubblica fu porta d’ingresso nel Nord Italia tra Sei e Settecento: preparato in risi e bisi “all’onda” per la festa grande del Doge nel giorno di San Marco oppure nei cento risotti di terra e di mare. I trattamenti del “povero” stoccafisso arrivato dal Nord Europa, e teoricamente fuori posto in ambito peschereccio dove il “fresco” si trovava ogni giorno, ma diventato caposaldo in cucina quando si doveva religiosamente rispettare il “vénare de magro”: o tratto fuori dalla sua lignea secchezza nella semplice versione alla cappuccina (olio, sale, prezzemolo e un sentore d’aglio) o definitivamente impreziosito nella versione bacalà mantecato che lo fa diventare una crema all’olio bianca e morbida.

Detto del bacalà, toccherebbe alle altre ricette di mare. Che però sono mille e tra le quali bisogna scegliere, raccontandone soltanto le più caratteristiche. Dunque: in testa a tutto il ricco branzino della Laguna, magari da mettere nei risotti, e al capo opposto della graduatoria il pesséto popolo, che sarà pure il più umile di tutti, ma che è quello più veneziano, quello che si comprava dai “fritolini” antenati dei fast-food, frittura per eccellenza servita in un cono di carta gialla assorbente. E poi le schie conse, i piccolissimi gamberetti grigi della Laguna o del Delta del Po, lessati un minuto (… e non cambiano colore) e poi passati per altrettanto poco tempo con olio, prezzemolo e aglio, per essere serviti sopra la polenta bianca; le moeche frite, granchi pescati quando mutano la corazza e sono molli e ben trattabili (a differenza dei cugini minori raccolti quando sono masenete), poi ingozzati di uovo sbattuto, se li si vuole farciti, e infarinati e fritti; il loro cugino maggiore che diventa granséola (da “granso-granchio” più “séola-cipolla” per la sua forma) e finisce servito nel suo puntuto carapace; le sogliole che a Venezia si chiamano “sfògi-sfoglie” e a loro volta vengono passate in marinatura come sfògi in saòr.

In chiusura delle citazioni ittiche, un passo indietro nel menù, per ricordare il primo di pasta più tipico delle mense veneziane: i bìgoli in salsa, pietanza di magro per i giorni di Vigilia nella quale i gloriosi vermicelloni veneti usciti dal “tòrcio” vengono conditi con cipolla molto ben affettata e molto cotta nell’olio d’oliva con l’aggiunta di acciughe dissalate. 

Padova: l’elegante gallina col ciuffo venuta dal Nord 

Gallina padovana: e basta il nome per quello che, in àmbito veneto almeno, è il pennuto da cortile storicamente più noto e più tipico. Leggenda vorrebbe che la provenienza sia stata da lontano, addirittura dalla Polonia, al sèguito dell’astronomo Giovanni Dondi dell’Orologio (figlio del progettista dello splendido congegno che marca il tempo sulla piazza dei Signori padovana) che lassù al Nord era rimasto affascinato dall’eleganza e bellezza del pennuto dal gran ciuffo di penne sul capo, completato da barbetta piumata sulla gola e basette colorate sulle guance.

Nera, bianca, dorata, argentata o color camoscio, la Padovana (presidio Slowfood per qualità e rarità) è parente stretta, estetica e genetica, della bianca o nera gallina di Polverara.

L’una e l’altra sono destinate alla lenta preparazione “in umido” previa marinatura in vino e odori, oppure a comporre il bollito misto alla padovana (con capèl del prete, coeghìn e  lengoa) o ancora alla solitaria bollitura, meglio se nella versione a la canevera, cioè cotta dentro un vescica di maiale (…oggi sostituita con un appropriato sacchetto da cottura) con sfiato tramite un pezzo di bambù per conservare tutti i sapori.

Non manca come accompagnarla con una buona bottiglia della varia e ricca produzione di vini Doc Colli Euganei, la cui sequenza comprende tutti i nomi classici dell’enologia centroveneta più un meno frequente Moscato e tre particolarità: l’autoctono Pinello, il Serprino che ben si presta a diventare frizzante e il Fior d’Arancio da dessert.

Uniche altre zone vitivinicole Doc del Padovano, fuori dai Colli, sono quelle di Merlara, all’estremo Ovest della provincia, e delle campagne di Bagnoli di Sopra, dove la produzione più caratteristica è quella del Friularo, coltivato in zona dal Cinquecento. Nella versione “storica” è un rosso da robuste paste al ragù, cacciagione, insaccati di maiale, formaggi piccanti e ben si accompagna a uno dei piatti più particolari assestatisi nei menù della Bassa Padovana: lo spessatìn de musso – servito con la polenta che il padovano Angelo Beolco, il Ruzante, portò per primo in letteratura – nel quale le carni d’asino brasate si ammorbidiscono e si sfrangiano nel sugo forte di cottura con pomodoro, salvia, rosmarino, alloro e spezie. 

Treviso: la terra del radicchio e del Prosecco

Coltivato nella fascia di pianura fino al Piave, centrata su Treviso e Castelfranco e percorsa dalle acque di Sile, Zero e Muson (con propaggini topografiche nel Padovano e nel Veneziano), il radicchio rosso – la cicoria dalla costa bianca e croccante che allarga la sua foglia nel rosso intenso, diventata bandiera delle tipicità della Marca – è stato tra i primi ortaggi ad ottenere il riconoscimento europeo Igp. Nelle varietà precoce (zona di produzione più ampia) e tardiva (area più ristretta) è comunque perfetto per la cucina: da solo alla griglia oppure nel risotto, nelle paste ripiene, in crema per accompagnare le carni e in centinaia di altre ricette.

Confratello promosso dallo stesso Consorzio di tutela è il radicchio variegato di Castelfranco, simile per utilizzi ma più usato nelle classiche insalate fresche, da usare come contorno ai piatti forti di carne che si accompagnano a un’altra tipicità trevigiana, le “peverade”.

Di queste, ogni famiglia si fa la sua: un po’ più forte, un po’ più dolce, con più o meno olio o un tocco di burro finale, con il limone o con l’aceto, con l’aggiunta o no di capperi e prezzemolo. A partire comunque dagli stessi ingredienti base (fegatini di pollame o coniglio, sopressa alla veneta o almeno buon salame, acciughe, spezie e un bel po’ di pepe) la salsa peverada campeggia sulle tavole quando in tegame o in forno cuociono le faraone oppure i pollastri o i conigli tipici della Destra Piave. La variante più pregiata di tutte? In accompagnamento alla lepre, preparata con il suo stesso fegato. E chi la peverada l’ama sopra ogni altra salsa finisce di godersela “tociàndovi” una polenta bianca di mais biancoperla che nella Marca è un’altra qualificata Igp e un presidio Slowfood.

E nei bicchieri trevigiani? Il Prosecco: e basta la parola. L’hanno imparata in mezzo mondo e la zona di produzione si è estesa tra Veneto e Friuli (per prendere dentro opportunamente il borgo triestino di Prosek-Prosecco che garantisce la titolarità della Doc). Ma il sovrano delle bottiglie nordestine è nato qui. Cioè precisamente tra Valdobbiàdene – cuore della produzione dell’uva base, la Glera, e delle consorelle che la integrano (Verdiso, Perera, Bianchetta, Pinot e Chardonnay) – e Conegliano, la città in cui nacquero nel 1876 la prima scuola enologica d’Italia e nel 1923 il primo istituto sperimentale per la viticoltura. Ed è qui che le versione “superiore” dal 2010 si è aggiunta la “g” della qualità garantita con la quale sfida lo Champagne nei calici dei cinque continenti. Lontani i tempi della sua indèbita inflazione, il Valdobbiadene Prosecco superiore di Cartizze resta il top dei top nella sua limitata estensione vitata, appena 106 ettari.

Belluno: il profumo dei pascoli dei Monti Pallidi 

Incredibilmente mutanti da un versante all’altro delle zone d’alpeggio, da un paese in quota a uno di fondovalle, i sapori dei formaggi di malga o di “casèl” del Bellunese fanno corona all’assestata qualità del Piave, prodotto in vari caseifici e in particolare nel più grande e capillarmente rifornito complesso della zona, quello marchiato Latte Busche.

La collana delle delizie casearie è tale da veder tracciata attraverso la provincia una Strada dei Formaggi delle Dolomiti Bellunesi che, svariando anche lontano dai Monti Pallidi, allinea Montasio e Malga Bellunese,  Contrìn e NevegàlCesio e FodòmRenàz, Casèl e Zumelle; e che intorno al Grappa fa gustare il Morlacco di vacca burlina (presidio Slowfood) e la sua variante stagionale, il Bastardo.

Nelle malghe ladine di Livinallongo la parentela alpina con le valli altoatesine faceva produrre nel passato (ma oggi raramente) il piccolo Zigher bianco e leggero nelle sue forme a conetto, ma dal piccante sapore di fermentazione. Da un’altra parte delle montagne dolomitiche l’Agordino di malga è un altro apprezzato presidio Slowfood.

A Feltre regna lo Schiz, denominato così dagli schizzi di cagliatura che i casari recuperavano intorno alle caldiere e friggevano come pasto sul lavoro, perfetto oggi per il passaggio in padella con un po’ di rosolatura nel burro: ma che sia il burro delle Vette, quello che già mezzo millennio fa dal Feltrino e dall’odierno Parco delle Dolomiti bellunesi finiva, per le vie dei sentieri e dei fiumi, fino alla Laguna, al mercato di Rialto, venduto dai “butiranti” alle cuoche dei nobili della Serenissima.

Con i formaggi, naturalmente, la polenta. Quella tipicissima è fatta con i chicchi coltivati in Val Belluna e nella conca feltrina, così appuntiti da pungere la mani a chi li sgrana dalla pannocchia: sono di mais spòncio, secolare protagonista di memorabili polente “stagne” nelle quali si apprezza la macinatura grossa della gialla farina: tutto il contrario delle polentine morbide e bianche che si spandono nei piatti di pianura. 

Vicenza: il bacalà e i formaggi di malghe e risorgive

Citiamo subito il bacalà a la visentina, scritto con una C sola come si usa qui, perché è lui a marchiare le tavole della provincia bèrica, noto com’è nei libri di culinaria e nelle conoscenze gastronomiche venete, nordestine e forestiere. Ricordiamolo arrivato dall’estremo nord europeo, portato dai mercanti veneziani; ingentilitosi rispetto a tutti i cugini stoccafissi nella generosa ricetta “made in Vicenza”; diventato, da cibo povero, pietanza illustre, generatrice di feste e meeting interregionali; onorato e vigilato da una Confraternita che a Sandrigo ne celebra i fasti. E ricordiamolo “pipare” in casseruola per ore, tra olio d’oliva e latte intero dopo essere stato appena infarinato, con la cipolla ben affettata e soffritta, con le sarde sottosale, con il prezzemolo e con quel po’ di grana che completa gli ingredienti.

Ma salutiamolo presto, il bacalà, perché il Vicentino è terra che di gastronomia popolare ne conserva molta altra e vi aggiunge a completamento – proseguendo, recuperando, innovando – le ricette che utilizzano un ventaglio ampio e raro di produzioni che si fregiano della Denominazione Comunale, secondo un progetto sviluppatosi qui come in poche altre zone.

Più del resto, forse, sono i formaggi a marcare le tipicità della provincia. Se indiscutibilmente il re  è l’Asiago delle malghe altopianesi e delle fattorie che tagliano foraggio nella pianura delle risorgive, le DeCo sono andate in cerca di produzioni locali di qualità che possono fare da alternativa o almeno da complemento. E così ecco trovati e classificati il formaggio Verlata della latteria Sant’Antonio di Villaverla, versione dei pressati d’Asiago nobilitata nel nome e nella cura casearia, anche “imbriagàbile” nella maturazione tra le vinacce di uva “clinto”; il Castelgrotta che le Latterie Vicentine hanno imparato ad affinare nelle viscere del colle del Castello di Schio e i caprini di grotta che gli fanno compagnia; il formaggio di Altissimo, prodotto nel caseificio sociale  approvvigionato dagli allevamenti delle alte valli del Chiampo e dell’Agno; e il formajo nel pignato che a Caltrano fa fermentare nel vino bianco gli “scarti” delle forme mal riuscite, ben pepati e profumati con un goccio di grappa.

Accompagnamento obbligatorio dei formaggi, la polenta ha nel Vicentino una DeCo fattasi famosa in tutto il Veneto centrale, la farina di mais maranèlo proveniente da Marano; e una sua concorrente interessante, la farina di mais di Isola.

Verona: l’Amarone sovrano dell’enologia veneta

Il Garda, luogo aureo del paesaggio veronese e calamita del turismo: lungo le sue rive sopravvive, nei ristoranti migliori, la tradizione del pesce d’acqua dolce, dal memorabile e raro carpione alle più frequenti trote lacustri che arrivano ai 10 chili, alle piccole àole che sarebbero alborelle ma vuoi mettere chiamarle col loro nome vernacolare… Sopra la costa del lago, dove i terreni s’increspano sovrastati dalla mole del monte Baldo – in stagione punteggiato dal verde vivo dei boschi di castagno che danno i marroni migliori – ecco il vasto bacino dell’ulivo che si spinge poi fin dentro la provincia, fino a congiungersi ai terreni della Valpolicella, l’altra importante area dell’olio Dop veronese.

Detto Valpolicella, si deve ovviamente dire vino. Anzi: grandi vini Doc. Se sul lago e nei suoi dintorni hanno riempito i bicchieri il bianco Lugana, il Rosso del Garda e il Bardolino – che nella qualità Superiore è tutelato dalla Docg, come all’altro capo della provincia lo è il Recioto di Soave – e se verso nord, sud e ovest campeggiano i Valdadige, il Bianco di Custoza e gli Arcole, a dipingere la fama delle aziende vitivinicole veronesi sono il Soave in bianco e il Valpolicella in rosso (quest’ultimo anche nella morbida e ricca versione come Recioto). In un’appendice territoriale a cavallo col Vicentino, intitolata al Lessini Durello, l’aspro vitigno antico che le cure di cantina hanno trasformato in eleganti bollicine è un’altra ricchezza della fornita cantina veronese. Ma il re dell’enologia provinciale è l’Amarone.

Le uve corvina, rondinella e molinara – prima appassite sotto le attente cure degli enologi e poi vinificate con una maestria che il mercato premia largamente – danno un superbo prodotto che nel cuore della bassa valle tutta vitata, nella zona di più antica coltivazione e più consolidate pratiche di cantina (Negrar, Marano, Fumane, Sant’Ambrogio, San Pietro in Cariano) prende la specificazione di Classico.

Se con un buon brodo si può portare a cottura l’ottimo risotto all’Amarone, il resto della saporita marmitta veronese di carni diventa ingrediente della tipicissima pearà, salsa che solo la cucina scaligera ha perfezionato, partendo da un paio di altri componenti in teoria umilissimi, miscelati appunto col brodo: il midollo d’osso del bovino lessato e il pane vecchio grattugiato. Un tocco di sale e il molto pepe che dà il nome alla preparazione, ed ecco servita la voluttuosissima cremosità che arricchisce il lesso misto di manzo, vitello e gallina (con accanto la lingua salmistrata e il cotechino cotti a parte) memoria di quando le carni valevano una festa.

Sempre festa è anche intorno ai risotti “all’onda”, come sarebbero quelli veneti, e a quelli più sodamente lombardeggianti che Verona imbandisce con il suo riso vialone nano. Le risaie della Bassa producono un chicco marchiato Igp di media grossezza, dalla sezione tondeggiante e con la testa tozza, perfettamente in grado di reggere la cottura a fuoco alto e mestolo di brodo dopo mestolo. La morte sua, come dice la storia culinaria della zona, è nella ricetta del riso all’Isolana (che fa sagra grande a Isola della Scala ogni anno tra settembre e ottobre, con mezzo milione di presenze) in cui la cottura a pilaf si marita con una ricca quantità di carne fresca di maiale e vitello, già macinata, salata e “consà”, preventivamente rosolata nel burro con il rosmarino.

Rovigo: la bòndola di maiale al color di vino rosso 

La “cultura del maiale” scrive nel Rodigino alcune delle sue pagine migliori, sfidando le tradizionali eccellenze emiliane che stanno appena al di là del Grande Fiume e che da sempre suggeriscono e scambiano modi di produzione e capacità d’innovazione rispettosa della tradizione.

Da cercare tra Adige e Po, quindi, sono i buoni salami stagionati e soprattutto la bòndola, che nel Polèsine arrotonda le sue forme e si fa “da sugo” aggiungendo obbligatoriamente anche il vino rosso agli abituali ingredienti veneti (carni suine scelte, grasso morbido in percentuale ben calibrata, aglio, sale e pepe) che finiscono dentro la vescica del maiale per una stagionatura di almeno quattro mesi.

Dalle memorie delle grandi aie di un tempo – come anche nel caso del coniglio alle erbe selvatiche o della faraona in técia – arrivano nella gastronomia rodigina le ricette con l’oca: al forno, “in umido” con verdure e vino rosso o eccezionalmente allo spiedo. Ma è l’oca in onto a fare da particolarità assoluta per i tempi odierni, che nulla più sanno dei modi e dei ritmi della cucina di una volta, quando il ricco pennuto macellato a San Martino (vero e proprio “maiale dei poveri”) finiva in vaso dentro il suo grasso, conservabile per i mesi in cui le carni fresche non c’erano più. Gemella del confit francese, l’oca ”in onto” veneta è un presidio Slowfood a conferma dell’importante valore tradizionale che riveste.

Tra i prodotti orticoli che opportunamente alleggeriscono e molto colorano la tavola rodigina sono da cercare, l’insalata e il radicchio rosso di Lusia, le patate americane di Adria e il melone del Delta polesano. Bisogna però arrivare tra i rami del Po per trovare la seconda serie delle tipicità della provincia, quelle della caccia e della pesca nel Delta.

Nella minestra di fagioli alla veneta si calano le rigaglie del magasso, una ricercatissima anitra del Po, mentre con i fagioli vanno in umido anche le fòlaghe. Con il riso del Delta si accompagnano in risotto la zucca polesana di Melara o l’appena citata fòlaga delle acque al confine tra dolce e salso oppure il cefalo, il branzino e l’anguilla delle valli da pesca.

Quest’ultima, poi, “muore” alla perfezione – accanto all’onnipresente polenta versata gialla o bianca sulla “panara” – anche nelle versione bisato su l’ara. Cioè sulla pietra del focolare (di una volta) su cui l’anguilla cuoceva sgrassandosi: per sostituirla oggi si può usare la pietra refrattaria o almeno una padella bucherellata.